Di cosa parlo quando parlo di Beatrice
Ovvero: La mia tenera sorellina rugbista
[Premessa: intendo raccontare questa storia alla maniera del cosiddetto New Journalism, i cui maestri indiscussi sono giornalisti/scrittori americani del calibro di Tom Wolfe, Truman Capote e Gay Talese. L’ispirazione mi è venuta dalla lettura di alcuni libri di recente pubblicazione dove il giornalista/scrittore sviluppa la sua inchiesta o il suo reportage “entrando in azione in prima persona”, e raccontando in presa diretta quello che vede con i suoi occhi. Trovo questo tipo di narrazione, col giornalista che dice “io”, estremamente coinvolgente: il lettore viene accompagnato per mano e portato direttamente sui luoghi dove accadono i fatti. È un tipo di scrittura molto personale, che se usata male può risultare noiosa (cosa mi interessa, a me lettore, cos’hai mangiato tu narratore il tal giorno prima di prendere quel treno?). Ma se usata come si deve, e cioè come tenterò di fare qui sotto, può diventare un nuovo tipo di narrazione, una sorta di New New Journalism, con una forte componente emotiva.]
Rovato (BS); domenica 16 marzo 2014; un anno e mezzo fa.
L’Italia femminile deve giocare l’ultima partita del Sei Nazioni 2014. Le avversarie sono le inglesi campionesse del mondo in carica. Sono venute in tantissimi a vedere l’ultima partita delle sempre più sorprendenti italiane.
Andrea Di Giandomenico — l’allenatore azzurro — è riuscito a creare un mix incredibile di ragazze esperte e nuove leve, formando un gruppo molto unito e molto promettente.
Beatrice è molto giovane (appena 18 anni) ed è alla prima esperienza azzurra. Il suo dovrebbe essere un Sei Nazioni di prova: è venuta per imparare dalle più grandi. Ma alla vigilia della prima partita contro il Galles l’apertura titolare ha la febbre. Beatrice risponde presente, e il giorno dopo debutta dal primo minuto con il 10 sulle spalle. Le gambe non tremano, e guida le sue compagne alla vittoria. Nelle partite successive l’Italia perde in Irlanda, stravince contro la Scozia e perde in Francia. Contro l’Inghilterra nessuno si aspetta la vittoria, ma tutti si aspettano una bella prestazione.
Così è, infatti: per i primi venti minuti le due nazionali se la giocano alla pari. Ma al minuto 21 avviene il fattaccio: Beatrice dopo un calcio nella profondità sale per mettere pressione sulla difesa inglese. Ma per placcare l’estremo avversario appoggia male il piede sinistro, centrando in pieno una clamorosa buca nel campo.
Il ginocchio fa crac, e la sua stagione finisce qui. Non mi ricordo il risultato finale. Di quel giorno a Rovato non dimenticherò mai le lacrime trattenute a fatica dalla Bea mentre, sostenuta dalla Gina, esce dal campo zoppicando e passa proprio sotto alla tribuna dove c’erano a a guardarla mia mamma e mio papà.
Se penso al silenzio dello stadio in quel momento mi tornano i brividi.
Potrei far cominciare questa storia con la fine dello scorso millennio. Nel settembre del 1999 avevo appena compiuto dieci anni e stavo per incominciare la quinta elementare. Nella mia famiglia fin da piccoli ci si iscriveva obbligatoriamente a nuoto: forse per questo — almeno allora — ritenevo questo sport una cosa “da bambini”, e per l’ultimo anno delle elementari chiesi a mamma se poteva farmi fare uno sport “da grandi”. Scartato il calcio dopo un paio di allenamenti, mi iscrissi con mio fratello Giovanni al Petrarca, storica squadra padovana di rugby. Fu chiaro fin da subito che — per usare un eufemismo — non fossi particolarmente dotato per quello sport. Ero scarsissimo nei passaggi, nei calci, nella visione di gioco. Non sono mai riuscito a correre come si deve. Me la cavavo solo nei placcaggi, dove sfogavo tutto il risentimento per non essere capace di fare altro. Odiavo andare agli allenamenti, soprattutto col freddo umido e nebbioso dell’inverno veneto. Nonostante tutto mi sono sempre sentito a mio agio nell’ambiente rugbistico, e non ho mai smesso di frequentarlo. Anche la mia famiglia è sempre venuta a vedere le partite mie e soprattutto quelle di Giovanni — lui si, veramente dotato; giocava con una squadra di fenomeni che a livello giovanile ha vinto tutto il vincibile. Finché non si è infortunato al ginocchio, era un piacere vederlo giocare: muoveva la palla con un’eleganza rara.
Mia sorella Maria faceva danza classica: penso che venisse a vedere le partite per prendere un po’ di sole e passare del tempo all’aria aperta piuttosto che per un reale interesse alle dinamiche di gioco.
Con mia sorella Beatrice invece è stato tutto diverso fin dall’inizio. Ha cominciato ad annusare l’odore dei campi da rugby da piccolissima. Veniva a vedere le partite già quando aveva quattro anni. Ci sono delle foto incredibili che mostrano bene cosa fosse il rugby per la Bea. Durante un torneo in Francia al quale partecipavano sia la mia squadra che quella di Giovanni, Beatrice ha passato quasi tutto il weekend a seguire la squadra del Petrarca U15 (nella quale non giocava nessuno dei suoi fratelli) perché, essendo più grandi, a quell’età si gioca a tutti gli effetti con le regole ufficiali, a tutto campo e in partite vere e proprie.
Beatrice però non si limita a seguire il “tour” dei più grandi: sta fisicamente in mezzo a loro, affianca l’allenatore e il capitano in più di un’occasione (foto), fa parte della squadra a tutti gli effetti. In questa tourneé francese la Bea aveva al massimo 5 anni: forse parlare di istinto rugbistico innato potrebbe non essere esagerato.
L’anno dopo, quando compie sei anni, comincia ufficialmente a giocare al suo sport preferito. Nel mini-rugby le squadre sono miste fino ai 12 anni: maschi e femmine giocano insieme. Beatrice si iscrive al Petrarca, e la cosa non è banale: è la prima bambina a giocare con la maglia tuttanera. In un ambiente con ancora grosse zone di maschilismo e omofobia è uno smacco non da poco.
In campo, manco a dirlo, Beatrice fa subito sentire la sua voce: gioca alla pari con i suoi compagni, e scala le gerarchie in squadra fino a diventarne il capitano. Con la sua squadra vince tre Trofei Topolino (la competizione italiana più importante a livello giovanile) conquistando per due volte il premio al Miglior Giocatore del Torneo — giocatore, non giocatrice. Comincia a farsi un nome nell’ambiente. Quando arriva il momento di trovare una squadra interamente femminile, la scelta ricade inevitabilmente sul Valsugana: l’unica società nel padovano ad avere una formazione di sole ragazze. Nell’ultima partita giocata con il Petrarca i suoi compagni di squadra le tributano l’ultimo saluto in grande stile, dimostrandosi dei piccoli grandi gentlemen: la fanno entrare per prima — da sola — in campo, schierandosi ai suoi lati e battendole le mani. Un gesto che io non ho mai più rivisto a quell’età.
Una scena indimenticabile che dà onore a Beatrice ma anche ai suoi compagni. Beatrice ringrazia, forse un po’ commossa, e saluta tutti. È pronta ad iniziare la sua nuova sfida in una squadra interamente al femminile, nella quale troverà nuove compagne con le quali farà veramente poca fatica a legare, formando lo zoccolo duro di una squadra formidabile.
Capitolo 1. Si comincia
Il campionato di rugby femminile 2014/15 comincia ufficialmente il 5 ottobre 2014. La prima partita del Valsugana Padova è contro il Casale, in casa. Beatrice gioca la prima partita della stagione con un braccialetto di plastica legato al polso destro. Ha compiuto 19 anni da un paio di mesi, ma gioca in serie A — titolare — da quando era minorenne. Purtroppo non è ancora riuscita a completare una stagione: il braccialetto che porta al polso è quello che le hanno messo in ospedale il giorno in cui si è operata al ginocchio. Si è sfasciata il crociato, quello sinistro, giocando contro l’Inghilterra durante il Sei Nazioni dell’anno scorso. L’anno prima ancora si era rotta il destro, andando a sciare con le sue amiche e compagne di squadra.
Beatrice è una guerriera. Dal giorno dopo l’infortunio si è messa al lavoro per recuperare e per farsi trovare pronta per il campionato successivo, quello di quest’anno. Il suo obiettivo, manco a dirlo, è quello di tornare più forte di prima. Quando ricomincia il nuovo campionato a Beatrice non mancano di certo le motivazioni. Fin dal primo minuto della prima partita ha una voglia disperata di giocare. Ma non solo: vuole giocare e vincere.
Con le prime partite della stagione arrivano le prime vittorie. La partita contro il Casale è a senso unico: finisce 54–3 per il Valsugana. Le ValsuGirls sono imbattute quando ospitano il Cus Torino. Sul campo non c’è storia, ma per un errore nel referto della lista gara perdono a tavolino e vengono penalizzate con un pesante -9 in classifica, perdendo la leadership a vantaggio delle acerrime rivali del Monza, le campionesse in carica. Nemmeno a farlo apposta, lo scontro diretto con le lombarde è in programma alla fine del girone d’andata.
Entrambe le squadre ci arrivano da imbattute sul campo. Si gioca a Monza. È una giornata orribile: piove a dirotto da due giorni, il campo è pesantissimo. In queste condizioni di solito è avvantaggiata la squadra con il pacchetto di mischia più solido, perché può permettersi di giocare poco la palla al largo ed evitare errori di handling, facili quando la palla è resa scivolosa dal fango. La mischia del Monza è impressionante nel gioco chiuso, mentre quella del Valsu ha il suo punto di forza nel gioco alla mano. Le ValsuGirls con sulle spalle i numeri che vanno dall’1 all’8 non sono enormi dal punto di vista fisico come le avversarie biancorosse. Ma sono più intelligenti: per gran parte della partita riescono a nascondere la palla alle avversarie, in difesa sono solidissime e in attacco sono ciniche. Il risultato premia la squadra ospite: 8–12 per il Valsugana.
Alla fine della partita mi permetto di condividere un pensiero sul mio profilo Facebook: “Queste sono le facce che piacciono a me. Sporca, piena di fango e infreddolita, ma con un sorriso così grande che ti scalda dentro. Stanca, ma con la consapevolezza di aver dato tutto. Dopo una partita ad alta intensità, una vittoria strappata con i denti che implica una obbligatoria ubriacatura molesta. Bravissime ragazze, e forza Valsugana”.
Capitolo 2. Il Sei Nazioni 2015
La nazionale di rugby femminile è allenata da qualche anno da Andrea Di Giandomenico, che fin da subito ha attuato un piano rivoluzionario creando formazioni ibride composte dalle migliori giocatrici esperte mixate alle giovani più promettenti. Beatrice fa ormai parte del giro della Nazionale maggiore in pianta stabile da un paio di anni. Non riesco a nascondere quanto questa cosa mi riempia di orgoglio.
Durante il Sei Nazioni dell’anno scorso Beatrice doveva essere una semplice comparsa, ed è finita per essere la giocatrice rivelazione del torneo, fino al suo infortunio all’ultima giornata. Nel torneo del 2015, nonostante i suoi soli 19 anni, ci si aspetta molto da lei. La pressione, ancora una volta, le scivola addosso. Sembra che non veda l’ora di mettersi di nuovo alla prova. La prima partita si gioca a Firenze, nello stadio di fronte a quello della Fiorentina. Le avversarie sono le verdi irlandesi, le fortissime campionesse in carica. Beatrice parte dalla panchina. Le italiane resistono per tre quarti di gara alle pregevoli folate offensive delle avversarie. Crollano drasticamente solo nell’ultimo quarto di partita, perdendo alla fine per 5–30. Risultato un po’ bugiardo, ma tant’è. Io me ne torno a casa con impresso negli occhi il passaggio decisivo di Beatrice che ha portato all’unica marcatura italiana.
Nella seconda partita il copione è quasi lo stesso: le Azzurre sono ospiti delle inglesi campionesse del mondo in carica. Si gioca allo Stoop, uno stadio bellissimo, casa degli Harlequins, a pochi passi dal gigantesco Twickenham. Partita in equilibrio fino a venti minuti dalla fine. Poi nelle italiane si rompe qualcosa, e le inglesi dilagano: 39–7.
Terzo round: Italia ospite della Scozia. A Edimburgo non c’è storia: le azzurre regolano le ragazze col cardo sul petto con un perentorio 8–31. È la prima vittoria in questa edizione del torneo: qualcosa scatta nella testa delle ragazze. Ora hanno più consapevolezza nei loro mezzi.
La partita successiva si gioca a Badia Polesine, contro la fortissima Francia. Le transalpine fanno la partita, ma sono arroganti e supponenti, rendendosi poco concrete vicino all’area di meta italiana. Le azzurre si dimostrano più furbe e con mentalità vincente: riescono a portare a casa la partita con cinismo, andando a punti tutte le volte che superano la metà campo, e con una meta allo scadere che fa esplodere di gioia lo stadio: 17–12 per l’Italia.
La quinta ed ultima partita è contro il Galles. Si gioca a Padova, Beatrice è in casa. Sugli spalti dello stadio Plebiscito ci sono 3500 spettatori: record assoluto per una partita di rugby femminile. La partita è semplicemente meravigliosa. Il risultato finale è di 22–5 per l’Italia. Le azzurre entrano nella storia: si piazzano sul podio del Sei Nazioni. Mai nessuna nazionale italiana era riuscita a vincere tre partite su cinque nella stessa edizione del torneo. La Beatrice viene eletta “women of the match”. Io, dagli spalti, piango.
Capitolo 3. La resa dei conti
Il cammino delle ValsuGirls continua incontrastato fino ai playoff scudetto. Nel girone di ritorno non trovano particolari ostacoli, e si tolgono l’ulteriore soddisfazione di battere di nuovo il Monza in casa nell’ultima partita di campionato, in una gara inutile ai fini della classifica ma sentitissima da entrambe le squadre. A questo punto sembra chiaro a tutti e a tutte che, salvo clamorose sorprese, Valsugana e Monza saranno le squadre che si incontreranno nella finalissima per decidersi il titolo.
Nelle semifinali si sbarazzano agevolmente di, rispettivamente, Roma e Treviso. Entrambi i team sembrano rimpiazzare le altre due squadre storiche del rugby femminile italiano: il Rivera del Brenta e il Benetton Treviso. Valsugana e Monza sono squadre relativamente giovani ma toste. Il Monza ha vinto l’anno scorso il suo primo scudetto; il Valsu dopo due semifinali consecutive perse, accede alla sua prima finale per giocarsi il titolo.
La partita si gioca a Parma, in campo neutro. Sono passate da poco le 18 di sabato 23 maggio quando proprio Beatrice dà il via al match con il suo calcio d’inizio. La partita è nervosa: il Valsugana attacca e pressa le avversarie nella loro metà campo, ma non riesce a concretizzare. Alla prima occasione in cui il Monza riesce a rendersi pericoloso, al contrario, riesce cinicamente a segnare una meta, non trasformandola: 0–5. Poco prima dell’intervallo, Beatrice riesce a segnare un calcio di punizione: si va a riposo sul 3–5.
Coach Bezzati riesce a trovare le parole giuste per caricare le padovane, che rientrano in campo col coltello tra i denti. Io, per allentare la tensione, durante l’intervallo sono corso a prendere una birra. Siccome al bar c’era molta coda, torno al campo che le giocatrici hanno già ripreso a giocare. Torno appena in tempo per vedere un fallo delle monzesi, l’ennesimo, che viene giustamente sanzionato dall’arbitro: cartellino giallo e dieci minuti con un uomo in più per il Valsu. A battere la punizione va Beatrice. Per vederla calciare il pallone tra i pali ritardo la salita sugli spalti, posizionandomi — senza accorgermene — proprio dietro la panchina monzese. Quando Bea segna la punizione del sorpasso, non trattengo la gioia ed esulto proprio in faccia agli avversari.
Nel secondo tempo la partita diventa, se possibile, ancora più nervosa. Si gioca soprattutto a centrocampo, rischiando poco. Le trenta ragazze in campo si stanno giocando la stagione, e ne sono consapevoli.
A un quarto d’ora dalla fine Beatrice subisce un placcaggio duro: la sua avversaria non si posiziona bene e prende a sua volta una botta fortissima, tanto da svenire sul colpo. Beatrice invece cade male. Si tocca il ginocchio. A me tremano le gambe e mi si ferma il respiro.
Temo il peggio. Sto zitto. Quando la vedo rialzarsi sulle sue gambe (grazie a Dio!) la vedo zoppicare. Sembra tener duro ma, se non riesce a correre, quindici minuti possono essere lunghissimi. Poco dopo il Valsu ottiene una punizione a favore da ottima posizione. Beatrice fa delle prove per il calcio, ma le cede il ginocchio. È il segno che probabilmente non ce la fa. Lascia l’incombenza del calcio a Valentina, sua compagna nel Valsu e in Nazionale, che non sbaglia: 9–5.
Poco dopo arriva il cambio: Beatrice esce con le lacrime agli occhi: si sente in colpa per non poter aiutare la squadra negli ultimi, decisivi minuti. Sono dieci minuti di agonia pura. In dieci minuti il Monza va vicino alla meta — che significherebbe vittoria — due volte.
Dagli spalti si levano urla isteriche. Guardo la Bea in panchina, e la vedo mentre dà le spalle al campo: non riesce a guardare.
Finalmente, dopo secondi che sembravano eterni, l’arbitro soffia per tre volte nel fischietto: la festa può cominciare. È il primo Scudetto per le ragazze di Altichiero, la zona di Padova da dove parte la strada Valsugana che da il nome alla squadra. Beatrice, che nel suo piccolo ha già vinto molto, mi ha confessato che quella dello Scudetto è stata la vittoria finora più bella.
Una stagione trionfante, imbattute sul campo per un intero campionato, ragazze giovani con un futuro roseo: le ValsuGirls hanno tutti i motivi per festeggiare. Io posso solo ringraziarle, una per una, per avermi regalato emozioni indimenticabili.