
Hillary spacca i culi
Dalla Clinton alla Tina Anselmi, tra specchi e barriere di vetro. È arrivato il momento di dare il potere all’altra metà del cielo
“La donna è come una bustina del tè: non sai mai quanto è forte finché non è immersa in acqua bollente”. Eleanor Roosevelt.
“Deve essere difficile… è la difficoltà che lo rende grande”. Ragazze vincenti (Usa, 1992).
«Non siamo riusciti a sfondare quella barriera invisibile, la più inaccessibile e resistente in assoluto. Ma, grazie a voi, adesso quel vetro è attraversato da diciotto milioni di crepe. E la luce filtra come mai in passato, riempiendoci di speranza e della certezza che la prossima volta la strada sarà un po’ più agevole. Da sempre, è questa la storia del progresso in America. Mi troverete sempre in prima linea nella lotta per la democrazia, a combattere per un futuro migliore».
Hillary Clinton pronuncia queste parole il 7 giugno 2008. Si trova a Washington, nel National Building Museum; ha appena perso le primarie del partito Democratico e sta per pronunciare il suo endorsement al futuro presidente Barack Obama. L’immagine chiave di quel discorso storico nacque da un’idea di Jim Kennedy, uno dei suoi consiglieri e speechwriter, che si svegliò a notte fonda pensando che ciascuno dei diciotto milioni di elettori che avevano votato per lei nelle primarie aveva prodotto una sorta di crepa nella barriera invisibile che ostacola la reale parità dei sessi.

Donne e ragazze, ovunque, trovano ogni genere di barriera a limitare le loro ambizioni e aspirazioni, a rendere difficile, se non impossibile, realizzare i loro sogni. Negli Stati Uniti viene definita proprio così — “barriera di vetro” — la barriera invisibile che da secoli impedisce alle donne di raggiungere posizioni di potere.
Alla convention democratica di quest’anno a Filadelfia, dove si è presentata per accettare la nomination dopo aver sconfitto Bernie Sanders nelle primarie, Hillary si è presentata con un video che riprende in maniera esplicita il discorso interrotto otto anni fa con la parentesi obamiana.
Dopo aver fatto la “crepa più grossa” in questa barriera di cristallo, Hillary è pronta e non vede l’ora di romperla del tutto. Anche simbolicamente: per l’election day ha prenotato il Javits Convention Center di Manhattan, ovvero lo spazio al coperto più grande di New York, interamente ricoperto da vetrate.
I diritti delle donne non sono altra cosa — né in qualche modo secondari — rispetto ai diritti di cui ogni persona umana è legittimata a godere. Hillary risulta dura e poco affettuosa perché ha visto con i suoi occhi la condizione delle donne del mondo, e se ne fa portavoce. Non c’è nulla di figo o di divertente in questo. Durante i suoi viaggi in veste di first lady prima e di segretario di Stato dopo Hillary ha toccato con mano gli ostacoli che donne di ogni età si trovano ad affrontare; ha constatato come leggi e consuetudini restrittive impedissero loro di accedere a istruzione e assistenza sanitaria, di partecipare pienamente all’economia e alla politica, o, ancora, come persino nelle loro case dovessero sopportare violenze e abusi. Ha messo sotto i riflettori quegli ostacoli e incitato il mondo ad abbatterli. Ha parlato a nome delle donne e delle ragazze che aspirano a istruzione, assistenza sanitaria, indipendenza economica, diritti giuridici e partecipazione politica, trovando il giusto equilibrio tra il presentarle come vittime di discriminazione e come agenti del cambiamento. Ha fatto sentire, attraverso la sua voce, la storia non solo delle donne che ha conosciuto, ma del milione di altre che altrimenti sarebbe rimasto inascoltato. I diritti umani sono diritti delle donne, e i diritti delle donne sono diritti umani; diciamolo una volta per tutte.
Sottrarsi a un selfie è un lusso che nessun candidato alla Casa Bianca si sogna più. Ci sono però modalità differenti per assecondare il bisogno universale di scattare un selfie: Hillary Clinton si mette in posa, sorride, abbraccia, si alza, s’abbassa, ma quando vede troppi tentennamenti, strappa il telefono dalle mani tremanti e ci pensa lei. Poi via, un’altra foto. C’è chi apprezza il suo piglio e scoppia a ridere, c’è chi resta intimorito o infastidito: “aspetta un attimo, è il mio selfie!”.

Tecnicamente la strategia si chiama “umanizzare il candidato”, ma con Hillary è da sempre un’avventura molto più grande, molto più dolorosa, perché lei si porta addosso tutto il mondo, il suo, il nostro, quello dell’America, quello degli indimenticabili anni Novanta, le ambizioni di una ragazza che è arrivata al college repubblicana e ne è uscita democratica, di una ventenne che ha accantonato i sogni personali di carriera per coronare quelli di un marito traditore e bugiardo, di una donna in politica che ancora oggi dice: quanto è più facile promuovere un marito, un collega, un amico, quanto è facile andare sul palco e dire: “Guardatelo, è fichissimo, votatelo”, e quanto è impossibile dirlo di se stesse. Hillary è la storia di tutte, ogni donna sa che cosa avrebbe fatto al suo posto quando scoppiarono gli scandali di Bill, le corna, i sigari, le altre corna, se non si fa l’amore non conta; ogni donna sa se la detesta da allora perché perdonò o se la detesta oggi perché si capisce che ha perdonato per interesse; ogni donna ha un giudizio sui suoi occhiali da sole, sulla lunghezza dei pantaloni, sulle rughe, sull’acconciatura, sui suoi finanziamenti e sulle sue possibilità. E’ un enorme specchio, Hillary, di tutto quel che di irrisolto c’è nelle ragazze. Per questo forse molte scappano, rifiutano un modello, rifiutano una visione, rifiutano un’immagine riflessa che non è quella che vogliono, o che si aspettavano di trovare. Altre si fermano e si osservano, sognano, piangono, sperano, chissà se davvero una donna alla Casa Bianca sarà una rivoluzione. Hillary intanto ripubblica una frase del discorso che tenne a Wellesley, nel 1969, quando nello specchio forse almeno lei si ritrovava, o magari già non più: “La paura è sempre con noi, ma non abbiamo tempo per lei. Non ora”.

Penso che per le donne nel mondo sarebbe bello vederne arrivare una al governo della prima potenza militare. Who cooked Adam Smith’s dinner? (Chi cucinava la cena a Adam Smith?), si chiede il titolo di un libro di Katrin Marcal che sta facendo discutere in America. La madre, ci spiega l’autrice, perché il celebre economista viveva con lei anche da adulto. E così si potrebbe andare avanti per ore. Chi lavava le lenzuola di Washington? Chi preparava la colazione di Lincoln? Chi stirava le camicie di Wilson? Le donne sono arrivate tardi sulla scena del mondo. Prima erano bloccate dietro le quinte, impegnate a partorire, allattare, imboccare, cucinare, strofinare, spolverare. Ora che sono riuscite a salire sul palco lasciamoglielo anche un po’ governare questo mondo, dico io. Non potranno certo fare peggio di chi le ha precedute.
Ciò che rende Hillary Clinton poco attraente è la sua inautenticità, ed è uno dei temi di questi anni, il punto da cui discende l’appeal dell’antipolitica: persone che arrivano dal nulla e portano con sé altre realtà. Hillary invece appartiene totalmente all’establishment, porta con sé quel mondo, anzi è quel mondo, e per questo in America ha poca presa, esercita poco fascino, soprattutto sui giovani che chiedono uno spontaneismo che io invece non amo affatto. Non mi affascina, non mi fido, credo nella necessità di una realpolitik e non sono nemmeno sicuro che altri siano più puliti di Hillary Clinton per il solo fatto di essere in politica da meno tempo. Ma l’altra questione è il femminismo, che in America fa storia a sé, in particolare riguardo all’ossessione del rapporto fra pubblico e privato. E’ ciò che le femministe non le perdonano: aver preso le parti di un marito bugiardo e traditore, essere rimasta con lui. Ma proviamo a rovesciare tutto: Hillary diventa presidente degli Stati Uniti e intreccia una relazione con un giovane stagista, dice bugie al marito e al paese e Bill Clinton prende le sue parti. Lui che mette da parte la virilità e l’orgoglio per proteggere un matrimonio e un’idea di mondo libero: ci piacerebbe molto. Ecco, questo capovolgimento del giudizio non mi piace. Non trovo che sia per niente femminista. E penso anche che le persone tengano in piedi matrimoni a volte per la casa al mare, comunque per molto meno del sostegno al presidente del mondo libero. Dicono che Hillary non sia stata sufficientemente femminista in questo, forse invece è vero il contrario e non ho difficoltà a dire che mi piacerebbe un presidente donna. E una donna come lei, molto preparata, molto professionale, e in politica da sempre. Credo che sia un dono, un valore aggiunto, non certo una colpa da scontare.

Le differenze di genere sono insopportabili: perché quando un candidato è preparato è bravo, quando una candidata è brava invece è secchiona; se l’uomo ribatte a tono è in gamba, se a farlo è la donna allora è una maestrina; se un politico urla dal podio per enfatizzare un passaggio, è autorevole; se lo fa Hillary è una pazza isterica. Per essere come lei bisogna avere la buccia spessa. Ha commesso molti errori e non è empatica, e rappresenta in maniera assoluta l’establishment, in controtendenza con ogni parte del mondo. È un po’ come se fosse una mamma seria che non sorprende mai, destinata alla mediocrità. Non è un’amica con cui fare pazzie e confidenze. Però vuole bene ai suoi figli e sta dalla loro parte: lotta perché loro abbiano successo, tifa per la loro squadra. Il suo problema è che la mamma non regge il confronto con l’amica in campagna elettorale, ma è indubbiamente meglio avere una mamma piuttosto che un’amica come Commander in Chief. Le risposte giuste spesso non sono quelle che le persone vogliono sentirsi dare. Hillary ha la tendenza a dare risposte giuste: non belle, giuste. Fare il leader è un mestiere difficile: è importante il know how e bisogna essere in grado di fare scelte difficili.
Ammiro in modo incondizionato le donne forti, che riescono a superare sul campo le quotidiane discriminazioni di genere. È un argomento che sento mio fin da quando sono piccolo. Anzi: è un tema che mi tocca da ancora prima che nascessi.
Ho imparato a condividere il mio spazio con le donne ben prima di imparare a respirare. Maria — la mia sorella gemella — mi ha fatto capire qual è il sesso forte in natura quando eravamo ancora delle cosine dentro al pancione della mamma. Guardando le nostre ecografie risulta evidente chi di noi due dettasse legge in quell’ambiente privo di convenzioni sociali: la principessa deve avere il palco per sé, concentrando tutta l’attenzione del pubblico sul suo assolo; il fratellino invece deve rannicchiarsi in un angolo e non rompere finché la star si esibisce. Crescendo, le cose non sono cambiate.

Le donne importanti della mia vita possono — tutte — essere inserite nella categoria donne forti. Mia mamma è veramente fortissima, trasuda amore da ogni poro della pelle, basta starle vicino per sentirsi meglio; mia nonna Gianna e mia nonna Margherita non potrebbero essere più diverse sotto ogni punto di vista, ma entrambe incutono rispetto e ammirazione in chiunque le veda per la prima volta; mia sorella Beatrice è una forza della natura, e ho provato già a descriverla in un articolo di cui vado molto orgoglioso; la Sara è la donna più forte che io abbia mai conosciuto, mi sono innamorato di lei dal primo momento che l’ho vista: la cito sempre con l’articolo determinativo non perchè sono veneto, ma perchè lei è unica. Tutte le donne forti che ho conosciuto si sono sempre rivelate anche persone interessanti, sempre. Non ho ancora incontrato un’eccezione.
Più o meno è da un anno e mezzo, dall’inizio della campagna elettorale americana, che penso di scrivere questo articolo. Col passare del tempo e con l’intensificarsi della campagna ha assunto una natura sempre più cangiante. Era come se l’idea fosse dentro un caleidoscopio: ce l’avevo fissa in testa, ma ogni volta che ci guardavo cambiava colore e assumeva una forma diversa. Non ho mai smesso di pensarci, ma intanto non lo scrivevo. Il tempo passava, e l’8 novembre — il giorno delle elezioni USA — si avvicinava. La spinta decisiva mi è venuta il giorno di Tutti i Santi, l’1 novembre, quando ho appreso della morte di Tina Anselmi.

La Tina Anselmi nelle foto mi appare bella. Sorridente, faccia larga, la femminilità trattenuta, concretezza contadina, il rigore morale di chi sceglie di stare dalla parte dei più deboli. Per istinto naturale prima ancora che per coscienza politica. Veneta di Castelfranco Veneto, con un’aria da “Italia precedente, quella integra e laboriosa del dopoguerra, l’Italia neorealista, contadina e operaia, costumata, in bianco e nero, zavattiniana”, come l’ha ricordata Michele Serra su Repubblica. Scorrendo i suoi quasi novant’anni di vita ci si imbatte solo in una sequenza di primati, come rileva anche il bel ritratto apparso in un volume del Mulino, Donne della Repubblica; un bel libro in cui vengono riportate alla luce, con mano affettuosa e lieve, le storie dimenticate di Camilla Ravera, Teresa Noce, Ada Gobetti, Teresa Mattei, Nilde Iotti, Lina Merlin, Marisa Ombra, Renata Viganò, Alba de Céspedes, Fausta Cialente, Anna Magnani, Elvira Leonardi, Giulia Occhini e infine la Tina Anselmi.
La Anselmi è stata una figura politica e umana che ha avuto un ruolo importante nella costruzione della democrazia italiana fin dalla sua origine, con la Resistenza (a sedici anni sceglie di essere staffetta partigiana, nome di battaglia Gabriella, dopo aver visto impiccato dai nazifascisti il fratello di un’amica). Nel 1946 non può ancora votare, ma si dà da fare tra le contadine venete perchè capiscano l’importanza delle urne. Negli anni Cinquanta la ritroviamo accanto alla socialista Lina Merlin contro le case di tolleranza: la difesa delle prostitute le avrebbe attirato molte critiche. Ma è solo l’inizio, agli attacchi e anche alle bombe si dovrà abituare col tempo.
In fondo è il destino di chi cambia la storia, o di chi ci prova e in parte ci riesce. Da ministra del Lavoro vara la legge di “parità di trattamento tra uomini e donne”: una vera rivoluzione per quei tempi, anche se è rimasta incompiuta. Nel 1978, da titolare del dicastero della Sanità, partecipa all’istituzione del Servizio sanitario nazionale. Sempre in quell’anno dà prova del suo senso delle istituzioni al di là di qualsiasi fede religiosa: pur avendo votato in Parlamento contro l’interruzione di gravidanza, in veste di ministra firma la legge sull’aborto, resistendo alle fortissime pressioni vaticane.

Non può piacere a tutti, Tina Anselmi. Troppo integra, e anche troppo attiva. Nel 1980 sfugge a una bomba — forse di mano neofascista — che fortunatamente non esplode. È stata presidente della commissione di indagine sulla P2, che le costò l’isolamento e poi l’ostracismo da parte del suo partito per l’inflessibile integrità con cui la condusse e la tenacia con cui continuò a chiedere che se ne traessero le conseguenze sul piano giudiziario e politico. Quell’ostracismo che prima la fece emarginare dalla politica e poi è diventato un lungo oblio.
Per molti, troppi anni ci si è dimenticati di lei. Non veniva neppure nominata quando si evocava ritualmente quel gruppo di persone che si amava definire “riserva della nazione” — tutti rigorosamente del sesso “giusto”, anche se non tutti avevano e hanno un curriculum umano e politico del suo spessore. La sua rimozione dalla narrazione pubblica è talmente riuscita che, quando Elsa Fornero venne designata ministra del Lavoro nel governo Monti, molti, anche nei media, parlarono di prima donna a capo di quel dicastero, dimenticando che c’era stata, molti anni prima, appunto Anselmi, in un periodo altrettanto difficile e quando non era affatto scontato per una donna trattare da pari a pari con i colleghi di governo, con i rappresentanti sindacali e delle imprese.
La riparazione, parziale, a questo lungo oblio è avvenuta solo pochi mesi fa, quando le è stato dedicato un francobollo, per celebrare il quarantesimo anniversario del giuramento davanti al presidente Giovanni Leone per il ministero del Lavoro. Il primo, dedicato a una persona in vita (salvo due papi e sei inquilini del Quirinale immortalati insieme nel 1976, per celebrare l’allora trentennale della Repubblica). Un altro primato. Chissà che cosa ne pensava, lei che pochi anni fa aveva ammonito: «Lo ripeto sempre, a cominciare dalle mie nipotine, che nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere. Negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta noi donne impegnate in politica e nei movimenti femminili e femministi, noi parlamentari con responsabilità nei partiti e nel governo eravamo ancora pioniere. Questa parola fa pensare che in seguito saremmo diventate più numerose e avremmo contato di più. Purtroppo, certe speranze sembrano non aver dato i frutti che avevano in serbo». Per lei “contare di più” non significava soltanto “esserci”, ma lavorare per migliorare la qualità sia della vita delle persone sia della democrazia.

Era una tosta la Tina, che diceva sempre noi, mai io. Dalle sue parti, che poi sono anche le mie, la chiamavano con l’articolo davanti al nome. In Veneto (ma anche in altre parti d’Italia, che io sappia) è un’usanza diffusa. Grammaticalmente scorretta, ma socialmente accettata. Io la trovo una cosa bella, un segno di rispetto, per quanto inconscio. Quando si parla di una donna la si identifica chiaramente, in modo determinato, facendola sempre emergere dalla massa. Sappiamo, senza saperlo, che le donne sono un argomento delicato, affascinante ma incommensurabile. È un tema troppo alto per essere trattato in generale, quindi ci concentriamo su un singolo elemento dell’insieme per volta, nella sua unicità, con i suoi pregi e i suoi difetti. Anche quando facciamo i boari e parliamo di figa, noi veneti lo facciamo usando la sineddoche: parliamo di una parte per descrivere il tutto. Siamo troppo avanti.
Quello contro il genere femminile è «il più antico, radicato, diffuso pregiudizio che la vicenda umana è stata in grado di produrre», scrive Paolo Ercolani nel suo Contro le donne, resoconto dettagliato di come, dalle origini della società occidentale, scrittori, filosofi, intellettuali abbiano alimentato un dibattito «tutto fra uomini — le donne sembrano assenti dalla filosofia, se non come oggetti del discorso dei filosofi maschi — per arrivare a stabilire l’inferiorità inemendabile e irrecuperabile dell’essere femminile». Il saggio è un’autentica galleria degli orrori: secondo Platone le donne sarebbero una reincarnazione degli “uomini inferiori”; secondo Aristotele, nient’altro che “maschi menomati”. Per Sant’Agostino, la donna deve essere sottomessa per ragioni sessuali e corporali, per san Tommaso essa è semplicemente un “maschio mancato”. “Come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli ai mariti, in tutto”, dice san Paolo. Tertulliano descrive la donna come “la porta del diavolo”, mentre sant’Ambrogio risponde così alla domanda se sia stato più colpevole Adamo o Eva: “Sicuramente Adamo, perchè lei aveva dalla suala scusante della stupidità”. Sono contro le donne tanto l’Antico testamento quanto Omero e la tragedia greca, il mondo pagano come quello cristiano («Gesù Cristo è il meno misogino fra i cristiani», nota l’autore). Anche dalla lettura del Corano emerge che gli uomini occupano una posizione gerarchica superiore, poiché “Allah ha prescelto alcuni esseri sugli altri” (Corano, IV, 34).

La lunga stagione dell’oscurantismo misogino non finisce certo con il Medioevo. Marsilio da Padova assegna ai cittadini un ruolo fondamentale per il governo, ma con alcune eccezioni: “Gli schiavi, i bambini, le donne”. Bodin nega categoricamente la possibilità di una sovranità femminile. Machiavelli, pensatore moderno per eccellenza, paragona la Fortuna a una donna: “È necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla”. Per Montaigne, grande umanista e scienziato, “una donna è già abbastanza istruita quando sa distinguere tra la camicia e la giubba di suo marito”.

Nel 1791, in piena rivoluzione francese, la femminista ante litteram Olympe de Gouges scrive provocatoriamente la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, che all’articolo X proclama: “Se la donna ha il diritto di salire sul patibolo, deve avere anche quello di salire sulla tribuna”. Due anni dopo sarà ghigliottinata.
L’illuminato Rousseau tira odiosamente in ballo le “indisposizioni peculiari” femminili, cioè le mestruazioni, e le considera “una ragione sufficiente” per negare alle donne il primato nel governo della famiglia. Solo molto lentamente e per gradi, nel corso del XIX secolo, i diritti della donna cominceranno a farsi strada. Non senza colpi di coda. Ancora alla fine dell’Ottocento Nietzsche scrive: “Indubbiamente, fra i dotti asini di sesso maschile esiste un certo numero di rimbecilliti amici delle donne e costoro vorrebbero degradare la donna fino alla cultura generale o addirittura fino a leggere i giornali e occuparsi di politica”. E ancora: “Una donna con dotte inclinazioni rivela che qualcosa della sua sessualità non è in ordine”. Forse pensava a Lou Salomé.
Ora che molti pregiudizi sono caduti, quali sono le vere differenze fra uomo e donna, sul piano scientifico? Secondo la neuropsichiatra americana Loann Brizendrine, “nei maschi si riscontra che i centri cerebrali correlati al sesso sono quasi due volte più grandi di quelli delle donne, cosa che spiega perchè l’85 percento di essi, in un’età compresa fra i venti e i trent’anni, pensa al sesso ogni cinquantadue secondi, mentre alle femmine accade una volta al giorno, o poco più, nei momenti di fertilità”.

Donald Trump, candidato alla presidenza degli Stati uniti per il partito Repubblicano e avversario di Hillary Clinton, giudica le donne in base al proprio appetito sessuale. Ha definito le donne “maiali”, “cagne”, “sguattere”.
L’8 ottobre, un mese esatto prima delle elezioni, David Fahrenthold — un giornalista che probabilmente vincerà un Pulitzer per il lavoro che sta facendo su queste elezioni americane — pubblica sul Washington Post un video che mostra alcuni momenti precedenti alle riprese del programma Access Hollywood, quando un microfono aperto registra le cose che Donald Trump dice a Billy Bush, personaggio televisivo americano e nipote dell’ex presidente George H. W. Bush.
«Ci ho provato con lei e non ci sono riuscito, lo ammetto. Ho provato a scoparmela. Lei era sposata. E ci ho dato dentro. L’ho portata a comprare dei mobili. Diceva che le servivano dei mobili. Le ho detto: ti porto in un posto che vende dei bei mobili. Ci ho provato come una puttana ma non ce l’ho fatta. Ed era sposata. L’ho rivista dopo un po’, aveva queste gran tette finte, era cambiata moltissimo. [Il bus arriva, Trump e Bush vedono l’attrice che li aspetta] Meglio che mangi una Tic Tac, nel caso cominci a baciarla. Sai, io sono automaticamente attratto da queste bellezze. Le bacio subito. È come una calamita. Le bacio e basta. Se sei una star, te lo fanno fare. Ti fanno fare quello che vuoi. Puoi afferrarle la fica… quello che vuoi»
Il candidato alla presidenza degli Stati Uniti per il Partito Repubblicano che si descrive di fatto come un molestatore sessuale e dice di poter fare quello che vuole alle donne perché è una star, e racconta di averlo fatto, peraltro mentre era sposato con Melania. Il tutto dopo che decine di persone hanno raccontato cose simili di lui.
Quando ho visto questo video sono rimasto scioccato. Ma il fatto che Trump non si sia mai perlomeno scusato mi ha letteralmente sconvolto. Ha provato a giustificarsi dicendo che sembrava una cosa brutta perchè il linguaggio era turpe. Sarebbe stato meglio “quando incontro una signorina piacente mi appropinquo a lei e senza indugio comincio a farle dono del mio muscolo labiale, anche se non richiesto, e infine non esito ad afferrarle i genitali”? No. Sostituendo le parolacce il senso non cambia.

In seguito si è difeso dicendo che quello era solamente “gergo da spogliatoio”, e che quindi chi non ha mai frequentato uno spogliatoio non può capire. Ora: non posso dire di essere un assiduo frequentatore di spogliatoi, ma qualcuno ne ho frequentato. Il linguaggio è volgare, ovviamente, e tra quelle mura spesso ci si scambia confidenze anche molto spinte dal punto di vista sessuale. Ci si vanta, si millanta, si esagera, tutti fanno gli smargiassi. Le battute sono spesso oscene e molto pesanti. E guai a farle uscire dallo spogliatoio: quello che succede e viene detto lì dentro rimane lì dentro. Però una cosa la posso dire senza tema di smentita: non ho MAI sentito nessuno vantarsi di aver violentato una donna, mai. Anzi: sono abbastanza sicuro che se fosse successo sarebbero stati presi dei provvedimenti dagli altri compagni di squadra. Quindi non so che genere di spogliatoi abbia frequentato Donald Trump, ma di certo lui ed io non potremmo mai stare nella stessa squadra.
Nel corso del terzo dibattito televisivo Trump ha detto che le accuse sono così inconsistenti che non si è nemmeno scusato con sua moglie (quando sua moglie in realtà dice che lo ha fatto); e Hillary Clinton ha ricordato che Trump ha detto di non aver molestato quelle donne perché le considerava brutte, e che nel corso di questa campagna elettorale ha insultato anche un giornalista disabile, i messicani e i genitori musulmani di un soldato morto.
Trump ha ulteriormente alzato l’asticella nelle sue accuse sessiste contro Clinton: ha raccontato, senza che ci siano prove, che alla fine del secondo e del terzo dibattito Clinton era molto stanca e forse stava per svenire. «C’è questa donna che parla per un quarto d’ora e poi torna a casa a dormire», ha detto. Insomma, dopo aver detto che il primo presidente nero non poteva che essere nato in Africa, ora Trump dice esplicitamente che la prima candidata donna non può che essere debole.
Siamo soffocati dagli stereotipi femminili. Per quanti passi avanti fingiamo di aver realizzato, la realtà è che l’immagine che si veicola della donna, in tutti i mezzi di comunicazione, a cominciare dalla pubblicità, continua a essere quella di un oggetto fragile e civettuolo. Ma soprattutto un oggetto passivo, un elemento creato per essere osservato, per il piacere di chi guarda. Lo scopo delle donne è apparire belle affinché il resto del mondo, essenzialmente gli uomini, possano osservarle con soddisfazione e godimento.

Ogni giorno veniamo martellati da messaggi che ci spiegano di cosa c’è bisogno per essere belle, e le donne del mondo sembrano non accorgersi che la bellezza non sta in una posa, ma si può trovare nella vita, nell’esaltazione dei corpi, delle imperfezioni e della forza.
Kate T. Parker è una fotografa che ha sviluppato un progetto chiamato Strong is the new pretty. Le sue foto magnifiche parlano di bambine osservate non più da un punto di vista che le imprigiona con stereotipi sessisti, ma quell’altro che le vede per quello che sono: meravigliosamente forti. Nelle foto di Parker si vedono le sue figlie che giocano con gli amici e partecipano a sport come il nuoto e la pallacanestro. Attraverso la durezza delle pose, le bambine irradiano una forza che può venire solo da dentro.

“Strong is the new Pretty” si è trasformato in un fenomeno virale che ha fatto il giro di tutti i grandi media. Anche varie attrici come Emma Watson, Zooey Deschanel e Melissa Joan Hart hanno manifestato il loro appoggio attraverso i social network. E soprattutto madri di tutto il mondo hanno cominciato a pubblicare foto delle loro figlie con l’hashtag #strongisthenewpretty.
Il mondo è pieno di bambine e donne che non hanno bisogno di sentirsi dire che sono belle. Non lo sono, o non gli importa, perché sono forti.

Il mondo è un posto complesso, e i problemi globali non si risolvono con un tweet. Oggi in America, e non solo lì, la grande divisione non è tra destra e sinistra, o tra bene e male, ma tra chi affronta le sfide della modernità provando a costruire ponti e chi pensa sia più urgente erigere muri, tra chi vede un futuro di prosperità nell’aprirsi al mondo e chi si preoccupa di difendersi chiudendosi a riccio, tra chi si ostina ad ancorarsi al principio di realtà e chi soggiorna nell’era della politica post fattuale, dove non conta ciò che è vero ma soltanto la percezione e la condivisione di una narrazione, qualunque essa sia e non importa se basata sui fatti o no. Questa nuova divisione ideologica spiega che cosa sta succedendo, di qua e di là dell’Atlantico, con Trump e con la Brexit, con i grillini e con Podemos, con le destre xenofobe e i neonazisti. E con il No alla riforma costituzionale italiana. L’approccio di queste correnti populiste globali è semplicistico: fa presa alla pancia dell’elettore ma è inadeguato per governare un paese, soprattutto una potenza mondiale come gli Usa. In Scelte Difficili la Clinton spiega che «ci sono volte in cui dobbiamo scendere a difficili compromessi. La sfida è avere una visione realistica del mondo così com’è, senza perdere di vista il mondo come vogliamo che diventi. Per questo non mi dispiace se, negli anni, mi hanno definita sia realista sia idealista. Preferisco essere considerata un ibrido, una realista idealistica forse, perché, come il mio paese, ho in me tutte e due le tendenze».
La questione femminile è prioritaria ma per molti funzionari non viene vista come tale. Devo ammettere che mi sono stancato di vedere persone normalmente serie o coscienziose sorridere e annuire con condiscendenza quando vengono sollevati i temi legati all’universo femminile.
Per convincere gli scettici si è costretti a citare dati per dimostrare che l’uguaglianza di genere è vantaggiosa dal punto di vista economico (quando e se i dati sono disponibili). Per ottenere l’espansione economica che auspichiamo, dobbiamo sbloccare una fonte essenziale di crescita che potrà dare impulso alle nostre economie nei decenni a venire; e questa fonte di crescita sono le donne.

Quando partecipano ai processi di pace, le donne tendono a incentrare la discussione su temi come diritti umani, giustizia, riconciliazione nazionale e rinnovamento economico, che sono fondamentali per la pacificazione. In genere creano coalizioni trasversali rispetto ai confini etnici o settari e hanno maggior tendenza a parlare in favore dei gruppi emarginati. Spesso agiscono come mediatrici e contribuiscono a promuovere il compromesso. Eppure, malgrado il loro notevole apporto, sono perlopiù escluse. Delle centinaia di trattati di pace siglati dai primi anni Novanta, meno del dieci percento hanno avuto negoziatori donne, meno del tre percento firmatari donne e soltanto una piccola percentuale conteneva anche solo un minimo accenno alla questione femminile. Non sorprende, pertanto, che oltre la metà degli accordi di pace finisca per naufragare nel giro di cinque anni. Ci vogliono le donne per far rinsavire gli uomini.
E non servono a nulla le quote rosa, è sufficiente aprire gli occhi e guardare oltre la “fisicità” delle donne — come non riesce a fare Trump e tutti quelli come lui. Le donne in gamba sono tantissime, proprio perché per essere donna bisogna avere una marcia in più di default. Apriamo gli occhi e deleghiamo tutto all’altra metà del cielo, che sarebbe ora.
