Lettera aperta a Giovanni Malagò
Perchè non ci sono “sport da maschi” e “sport da femmine” nel 2021 d.C.
Durante l’assemblea elettiva della FIR che ha nominato Marzio Innocenti nuovo presidente del rugby italiano, è intervenuto anche il presidente del CONI Giovanni Malagò. È stato il solito intervento di circostanza, ma non è passato inosservato il passaggio in cui Malagò dice che “più che mai oggi, avendo due figlie femmine, avrei avuto un figlio maschio e sarei stato felice avesse giocato a rugby”.
Testuale. Se non ci credi clicca qui.
Si può discutere finché si vuole (per esempio sull’uso ardito del congiuntivo), ma il significato della frase lascia poco spazio alle sfumature: secondo il più importante rappresentante dello sport del nostro paese il rugby non è uno sport per donne.
Vogliamo essere gentili? Potremmo dire che è stata un’uscita decisamente infelice. Molti giornali online l’hanno definita “gaffe”, ma credo sia troppo riduttivo — bisogna sempre fare la tara considerando chi e in che contesto pronuncia certe parole. Si potrebbe usare il termine lapsus, anche se Freud ci ha insegnato che un lapsus è l’inconscio che trapela, rivelando quindi quali sono le nostre convinzioni più profonde, di cui a volte noi stessi siamo all’oscuro. Pezo el tacòn del sbrego, meglio di no.
Vediamo velocemente come siamo messi oggi in Italia dal punto di vista del rapporto tra Stato e mondo sportivo: viviamo in un momento in cui l’ex Ministro dello Sport Vincenzo Spadafora (M5S), dopo essere stato al governo per 17 mesi, si congeda dal ministero confessando che “non sapeva niente di sport”. Spadafora non viene sostituito: proprio in questi giorni Valentina Vezzali è stata nominata sottosegretario allo Sport — non ministra — dal governo Draghi.
Chi di noi segue lo sport non può quindi prescindere dalle mosse e dalle dichiarazioni di Malagò, che proprio per il ruolo che ricopre in questo momento storico è sempre più un punto di riferimento, e quindi un esempio.
Per questo motivo mi permetto, molto umilmente, di dare direttamente al presidente del CONI qualche consiglio: perché i bambini — e le bambine — ci guardano.
Caro Giovanni,
ti do del “tu”, perché il tono confidenziale mi aiuta ad essere più diretto, porta pazienza.
Dovresti scusarti, subito, per quella frase infelice che ti è sfuggita l’altro giorno. Mi raccomando: NON dire che sei stato frainteso, come spesso succede quando gli uomini di potere dicono sciocchezze sessiste. Se tutti hanno capito male non sei stato frainteso, hai detto una stupidaggine. L’errore è stato tuo, non degli altri: assumitene la responsabilità.
Ho la presunzione di dire che “ti è sfuggita una frase infelice” perché proprio oggi ho tirato fuori dalla mia libreria (non so se lo sai, ma la lettura per me è una mania ossessivo-compulsiva) il tuo libro del 2012 che si intitola Storie di sport, storie di donne.
Nell’introduzione dici così:
Io sono iperconvinto del fatto che l’universo femminile, per la diversità che lo contraddistingue rispetto a quello maschile, esalta i valori che sono le fondamenta della passione per lo sport.
Un piccolo presupposto è sostenere che la vittoria di una donna nel mondo dello sport vale quanto quella di un uomo è oramai un fatto acquisito. Banale, direi. Nasconde ed evidenzia il desiderio di “giocarsela alla pari”. Sempre e comunque. Anche nello sport. In certi casi, prendi l’equitazione, anche da pari a pari, donna contro uomo. In altri divisi, perché lo sport, nella sua ricerca di uguaglianza competitiva, prevede le categorie. Non ci sono forse i mosca, i piuma, i gallo e via dicendo a distribuire i confronti nel pugilato?
Ma non finisce qui. C’è lo sport al femminile come metafora dell’emancipazione sociale. Fare quello che fanno gli uomini sul campo di gara per essere in linea con loro in ogni settore, anche al di là di certe tardive concessioni dette, alla Cyrano di Bergerac, “quote rosa”.
Senza dimenticare, anzi ricordando prima di ogni altra cosa, che una donna è anche una madre. E se non lo è ancora, può diventarlo. Prima, durante o dopo la sua carriera sportiva. E in questo ruolo di atleta-madre si aprono capitoli di sport e di vita semplicemente straordinari, che vale sempre la pena di conoscere.
[…]
A tutte le donne di sport — e spero proprio di averlo fatto capire — va la mia sconfinata ammirazione.
A meno che queste non siano parole scritte da Nicoletta Melone, il cui nome compare — scritto più in piccolo — sulla copertina del tuo libro in qualità di co-autrice, penso che quello che scrivevi quasi dieci anni fa sia valido anche oggi, soprattutto a fronte delle nuove esperienze che ti hanno fatto crescere e maturare.
Sicuramente hai fatto tantissimi altri discorsi in cui hai esaltato il ruolo delle donne nello sport. Anche io ho perso il conto delle volte in cui ho ripetuto le solite cose, in particolare sul rugby femminile (per forza di cose), ma come vedi basta una frase sbagliata, in particolare se proviene da una bocca così autorevole, per far sì che i nostri sforzi vengano portati via dal vento.
E allora bisogna farsi forza, ricominciare a ripetere che non esistono sport da maschi e sport da femmine, che ognuno è libero di fare quello che si sente di fare.
Non è sufficiente celebrare l’8 marzo sui social, anche se ho trovato una bella idea che tu lo facessi ricordando Ondina Valla che nel 1936 a Berlino vinse — a soli 20 anni e contro i pregiudizi e la società dell’epoca — la prima medaglia d’oro italiana all’Olimpiade. Dimostriamo anche oggi che i pregiudizi erano sbagliati, e che la società è cambiata.
Marzo è il mese della Storia delle Donne. La Giornata delle Donne era la settimana scorsa. Ma era anche ieri. E l’altro ieri. E l’altro ancora. Lo sarà anche domani. Perché l’uguaglianza, il rispetto e le opportunità di crescere non dovrebbero mai dipendere dal genere.
Sì, ti sei espresso male, ormai è andata così. Però non è solo questione di accettare i tuoi errori, ma anche di adattarti a loro e correggerli. Gli errori sono cosa del passato; quando li stiamo facendo non ci rendiamo conto che sono tali. E se ce ne rendiamo conto e perseveriamo allora non sono errori, sono stupidaggini (stavo per scrivere “stronzate”, ma non mi sembra adatto agli ambienti del Circolo Canottieri Aniene).
Più ci informiamo, più ci proviamo, più abbiamo paura di sbagliare.
E questo ci stimola a volerne sapere di più.
Se oggi sbaglio, domani studierò per correggere quell’errore e dopodomani farò meglio.
Visto che ogni volta che ti capita di parlare di rugby dici sempre quanto apprezzi i suoi valori, prova a fare un passo ulteriore. Non fermarti ai luoghi comuni triti e ritriti come l’importanza del sostegno, il fatto che si va avanti guardando indietro, l’importanza del gruppo, il rispetto per l’avversario e la sacralità del terzo tempo. Tutti concetti nobili, fondamentali ma non sufficienti. Il fatto che si parla sempre e solo di queste cose ha stufato (anche qui l’avrei detta in maniera diversa), e i primi ad essere stanchi di questi modi di dire sono proprio i rugbisti. E i risultati si vedono.
Vorrei chiudere questa lettera proprio sui risultati. Sono consapevole di come paragonare tra loro maschi e femmine che praticano lo stesso sport sia intellettualmente scorretto. Come dici tu nel tuo libro, non si paragonano i risultati di un peso mosca ai risultati di un peso piuma. Ma fatte le debite proporzioni può avere un senso, e visto che le uniche a farsi remore a tal proposito sono le ragazze, mi arrischierò a farlo io al posto loro. Per forza di cose sono i risultati che sanciscono inesorabilmente il valore di un movimento.
Sabato scorso la Nazionale maschile — che santifica il terzo tempo, conosce l’importanza del sostegno e onora il gruppo — ha subito la 31esima sconfitta consecutiva al Sei Nazioni.
La Nazionale femminile — si, Giovanni, esiste perfino una Nazionale femminile in questo sport — nel Sei Nazioni del 2019 (l’ultimo disputato regolarmente prima dello stop per la pandemia) si è classificata seconda (!) dietro l’inarrivabile Inghilterra.
Dico che l’Inghilterra femminile è inarrivabile perché in quel paese la RFU — la federazione, che comprende maschi e femmine, ti ricordo — è sostanzialmente il datore di lavoro delle atlete di interesse nazionale. Questo significa che le giocatrici inglesi possono permettersi di giocare a rugby di mestiere, con uno stipendio e soprattutto le tutele che si meritano — anzi: di cui hanno pienamente diritto.
Essere donna, anche nello sport, non è “una fortuna”, un “merito”, “una cosa meravigliosa nonostante tutto (e nonostante gli uomini)”, come leggiamo sui social ogni anno in questo periodo. Essere donna è un fatto, punto, e i diritti delle donne sono diritti dell’umanità.
Tu dirai: guarda che i rugbisti italiani vengono trattati come professionisti, e vedi i risultati. Vero, ma qui stiamo parlando di ragazze, Giovanni.
Le azzurre, che quando indossano la maglia col tricolore sono per definizione le atlete migliori del Paese nello sport che praticano, sono costrette a chiedere ferie per fare le trasferte, se rimangono incinte (sono cose che capitano) non sono minimamente tutelate, quando smettono di giocare dopo aver passato decenni a dar lustro a tutto il movimento si trovano a piedi e con contributi non pagati.
Arriva quindi il momento del mio consiglio non richiesto: quando chiederai scusa per la tua “frase infelice”, rilancia, fai lo splendido. Annuncia un vasto programma che introduca finalmente il professionismo anche nello sport femminile, in tutti gli sport femminili. Tu avrai dati più precisi di me; secondo me avrai come minimo il sostegno di metà dello sport italiano, la metà troppo spesso inascoltata. Sono sicuro che anche le tue figlie saranno — una volta di più — orgogliose di te.
A presto,
Francesco